lunedì 10 maggio 2010

Cercasi Acqua pulita per lavare privatizzazioni sporche

Cercare di fare chiarezza e allo stesso tempo essere sintetici su un tema così delicato è molto difficile e spero di raggiungere comunque l'intento.
In Italia tutto e cominciato nel 1994 con la legge n. 36/94, detta legge "Galli" dal nome del suo promotore, che con l'obiettivo di ridurre l’eccessiva frammentazione dei soggetti gestori che, tra acquedotto, fognature e depurazione, erano 7826 all’inizio degli anni novanta, ha diviso il territorio italiano in novantuno Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) (formati dai Comuni dei territori interessati), i quali gestiscono l’acqua nei propri territori e hanno un proprio organo decisionale di nomina politica. Sempre secondo la legge ogni ATO può affidare la gestione del proprio servizio idrico integrato ad un’unica società, con tre possibili alternative di gestione: azienda a capitale totalmente pubblico (opzione “in house”); società a capitale misto pubblico-privato; società a totale capitale privato. (clicca sul titolo per continuare)

La preferenza da parte di quasi tutti gli ATO si è orientata ovviamente verso le ultime due forme giuridiche. Perché? Semplice! Perché solo la possibilità di una partecipazione totale o parziale dei privati poteva garantire un ritorno economico per gli amministratori che gestivano il servizio in maniera pubblica. Infatti, è in questo periodo che cominciano a fare il loro ingresso le grandi multinazionali dell'acqua attraverso il solito meccanismo delle scatole cinesi. In pratica le cose andavano a grandi linee sempre nella stessa maniera: le ATO (quindi i Comuni), tramite delibera, affidano la gestione del servizio idrico a società miste composte dall'ATO stesso e un partner privato – una multinazionale dell’acqua – spesso addirittura con affidamenti diretti, quindi senza asta pubblica.

Se la società fosse rimasta a totale partecipazione pubblica doveva osservare per legge l'obbligo di chiudere il bilancio in pareggio e quindi di reinvestire tutti gli introiti nella società, escludendo ogni possibilità di profitto, ma essendo la società a partecipazione mista, se non totalmente privata, non solo era possibile ma addirittura stabilito dalla legge Galli prevedere negli Statuti delle singole società la remunerazione del capitale investito di almeno il 7%, percentuale minima indicata dalla stessa legge. E' facile dedurre da quanto appena detto che rispetto a prima ciò avrebbe comportato, bene bene che andava, un aumento delle tariffe di almeno il 7%. In realtà secondo l'Istat la media nazionale degli incrementi, dal 2002 al 2009, è del 47%.

Nonostante ciò il processo di privatizzazione va avanti e nel 2008 entra in vigore il decreto legge 112/2008, convertito in legge 133/2008, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria. All'art. 23 del decreto si afferma in sostanza che la gestione dei servizi idrici deve essere sottomessa alle regole del diritto privato e non pubblico.
Ma fino ad un certo punto!
Perché qui si ripete una "porcata", perdonatemi l'espressione, che è sempre stata commessa ogni volta che si è provveduto a privatizzare un servizio pubblico (trasporti, telecomunicazioni, ecc.).
Al comma 5 dell'articolo 23 si legge testualmente: "Ferma restando la proprietà pubblica delle reti, la loro gestione può essere affidata a soggetti privati".
Cooosa!
La parte più rilevante e importante dei costi della gestione di un servizio è sempre stata quella della manutenzione della struttura della rete. Chilometri e chilometri di tubature se parliamo di acqua, cavi se parliamo di telefoni o binari per i trasporti ferroviari rappresentano un impegno notevole di spesa per le casse di una società pubblica, privata o mista che sia. La porcata consiste proprio nel lasciare allo Stato la cura della parte strutturale del servizio (tubazioni, cavi ecc) e affidare a privati solo la gestione dello stesso, che rappresenta la parte più redditizia. E' stato cosi quando si è privatizzata la Sip, nel caso del fallimento dell'Alitalia e adesso con le privatizzazioni idriche. Quindi i cittadini devono pagare con le tasse i costi per la manutenzione e ampliamento della rete e pagare poi il gestore privato la fornitura del servizio a prezzi maggiorati perché la gestione con le nuove norme deve essere remunerativa.
Per cui non è vero che è stato privatizzato il servizio pubblico, ma sono semplicemente stati privatizzati gli introiti del servizio pubblico che dalle tasche dei cittadini sono passati a quelle delle multinazionali.

A dare il via libero definitivo alla privatizzazione dell'acqua è intervenuto il decreto legge n. 135/2009, meglio noto come decreto 'Ronchi' dal nome del Ministro dell'ambiente che lo ha emanato, che stabilisce all'art. 15 innanzitutto l'esclusione di ogni possibilità di gestione pubblica dell'acqua. Tale possibilità infatti rimane isolata "a situazioni eccezionali che, a causa di particolari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato". Al di fuori di queste ipotesi "le gestioni in essere a totale partecipazione pubblica (in house) cessano, improrogabilmente e senza necessità di deliberazione da parte dell'ente affidante, alla data del 31 dicembre 2011".

Quindi la gestione del servizio idrico sarà a breve a totale o principale partecipazione privata.
E tutto questo nascondendosi dietro a frasi fatte del tipo “è l'Europa che ce lo chiede”, lasciandoci intendere che è l'Europa che vuole la privatizzazione. In realtà non è così in quanto è bene chiarire che le due direttive europee in questione (92/50/CEE e 93/38/CEE) si limitano a chiedere che vi sia concorrenza per i servizi pubblici nazionali e locali, affidando ai singoli Stati membri il compito di stabilire quali siano i servizi “a interesse economico” e quali quelli “intrinsecamente non a scopo di lucro”. Per questi ultimi, peraltro, si sottolinea che ogni singolo Stato può sancire il divieto totale di apertura al mercato. Per la comunità europea l'importante è non discriminare.
Sono ormai trascorsi anni e l’Italia resta uno tra i pochi Paesi a non aver ancora definito quali servizi inserire tra quelli “a interesse economico” e quali considerare “non a scopo di lucro” procedendo, nella confusione più generale, alla privatizzazione di ogni tipologia di servizi.

In conclusione alcune considerazioni finali debbo pur farle. La prima riguarda il controllo pubblico che secondo i promotori delle privatizzazioni continuerebbe a sussistere grazie alla partecipazione pubblica nelle società di gestione del servizio, le cosiddette Partnership Pubblico-Privato, che assegnano al “pubblico” le funzioni di indirizzo e di controllo e al “privato” i compiti di gestione. È solo un'illusione! Secondo i loro fautori, costituirebbero una forma di gestione efficace, perché capace di unire la superiorità – accettata come postulato, dunque indimostrabile – della gestione privata con la necessità del controllo pubblico. Quasi sempre, in queste forme societarie, il pubblico detiene la quota maggioritaria del capitale, cosa che di per sé dovrebbe garantire le finalità pubbliche del servizio. Nella pratica concreta, il ruolo delle assemblee elettive e del “pubblico” in generale si riduce quasi sempre ad una semplice ratifica di quanto da altri deciso. Es.:
L’ottenimento di affidamenti di servizi idrici in Armenia, in Albania, in Perù, in Colombia e in Honduras da parte di Acea Spa, il cui capitale è per il 51% di proprietà del Comune di Roma, dovrebbe essere stato oggetto di un precedente dibattito con successiva deliberazione del Consiglio Comunale di Roma che ha valutato l'opportunità economica, sociale, morale ecc. di una partecipazione nella gestioni di servizi pubblici di altri Paesi. Ebbene, qualcuno pensa che nel Consiglio Comunale di Roma si sia mai dibattuto di tutto questo? Con tutti i problemi che deve affrontare un Comune come Roma non è molto più logico pensare che il Comune si sia limitato a firmare accordi presi dagli organi esecutivi dell'Acea spa? D'accordo è solo una supposizione personale, ammetto di non essere mai stato nel Consiglio Comunale di Roma per verificare se effettivamente hanno mai messo all'ordine del giorno le strategie economiche di Acea spa., ma mi riesce così difficile crederlo...

Infine non riesco a non evidenziare un duplice conflitto di interessi. Quello a livello politico di assessori e sindaci che durante il loro mandato affidano la gestione dell'acqua a multinazionali e poi, terminato il mandato, sembrano sparire per qualche tempo, ma in realtà ricompaiono al fianco di esponenti delle multinazionali, in un intreccio di relazioni clientelari a volte davvero clamorose. Vedi il caso di Alberto Irace (Partito Democratico): da Presidente dell’ATO3 Campania sponsorizza e favorisce l’ingresso di ACEA nella gestione della sua ATO e poi, finito il mandato, diventa Amministratore Delegato proprio di Acea!

Ma quello più clamoroso è il conflitto di interessi economici a dir poco paradossale: una società di capitali agisce con l’obiettivo della massimizzazione del profitto per gli azionisti, il quale è in contrasto con l’obiettivo del risparmio della risorsa: occorre vendere sempre più acqua altrimenti gli azionisti reclamano. Ed è così che a Firenze, Publiacqua Spa, società mista, ha aumentato di recente le tariffe del 9% per recuperare i profitti persi negli ultimi anni dai minori consumi d’acqua dei virtuosi fiorentini. Da una parte le campagne “progresso” invitano i cittadini a risparmiare acqua e a chiudere i rubinetti mentre lavano i denti, dall’altra si aumentano le tariffe se si consuma meno acqua!

"Il whisky è per bere, l'acqua per combattersi", sosteneva Mark Twain.

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